lunedì 3 giugno 2013

ORA x ORA

Ore 7.40 Una sorta d’infernale aggeggio mi distrae dal momento più bello del mio sogno, come sempre d’altronde. E’ mattina, o meglio è la mattina: comincia proprio adesso il giorno dell’esame. Non è il primo e quindi sono abituato; ciò non toglie che io sia nervoso. Così, carico il pugno, pronto a calarlo come una mannaia, al rallentatore: tutto per colpa dell’indolenzimento del braccio. Piano piano la mia mano si ammorbidisce, forse intenerita. E così quell’atto violento si trasforma in una carezza. Sufficiente però a disattivare il meccanismo che fa trillare in maniera inquietante, ma soprattutto irritante l’indispettita sveglia.
La spengo e penso tra me e me: “Ancora 5 minuti”, è la classica frase detta la mattina, che si vorrebbe ripetere all’infinito.
Infatti, questi sono i migliori 5 minuti di tutta la notte, perché sono “rubati” al giorno e al sole che incalzano. Una volta che te ne sei ripresi 5 ci riprovi. Ti sembra di essere cleptomane. Non t’interessa cosa stai trafugando, fosse anche un solo secondo, lo hai rubato: e, ciò che più importa, al mattino. Come un novello Robin Hood rubi ai ricchi per dare a un povero.
Poi qualche voce ti riporta alla realtà. La casa si anima lentamente, cerchi di proteggerti con la coperta o il cuscino. Non c’è nulla da fare. Prima giunge qualche indizio lontano, come lo sciacquone del bagno. Poi dei passi appesantiti da grosse ciabatte. Infine la luce che filtra sotto la porta e … “Giovanni è tardi: muovitiiii…!!!”. Solo adesso sono costretto ad accettare che ogni illusione sia svanita. Dico addio al letto, come si fa con un amico prezioso. Gli do appuntamento come fosse il programma preferito in Tv.
Mi alzo. Guardo l’ora. Sono in ritardo. E i gesti che qualche attimo prima erano lenti, impacciati, quasi soffocati, diventano meccanici, rapidi, esasperati, quasi nevrotici.
In pochi minuti sono pronto. La colazione può attendere, l’autobus no. Mi lancio verso l’uscio, con la foga di sempre, apro la porta. Controllo che li cane non tenti la fuga. Alle mie spalle giungono delle frasi sconnesse, provenienti da più persone: le intuisco come il tocco di “ce l’hai” sulla schiena.
Si tratta del comune “in bocca al lupo…”. Ma questa volta sono in bilico, spero in un posticipo. Attendo che la frase sia completa. Come fosse la mia ancora di salvezza, per non sembrare un codardo: …se lo fai…”. Mi sento sollevato. Rispondo a tono. Saluto. E mi allontano. Non c’è il sole. C’è nebbia. Raggiungo la mia fermata. Attendo fino a che non vedo un’ombra arancione che si fa largo nella coltre e nel buio.
Esulto: posso essere sottratto al freddo in breve. Sono stato salvato dall’assalto del vento gelido: sono arrivati i “nostri”!! Nonostante tutto, si era già impossessato di me, costringendomi in pochi minuti a rabbrividire un paio di volte.

 
ORE 8.15 A fianco a me il mio consueto compagno di viaggio, Andrea, il mio vicino di casa. Chiacchieriamo, cerco di distrarmi, anche se piano piano mi sto abituando all’idea di rinviare l’esame. Si parla di calcio; è utile, rido più che posso, forse sembro anche isterico. Non importa. Ho un esame. Non mi accorgo di nulla. Mille volti mi passano innanzi, non ci faccio caso; si confondono tra loro. Li mischio e li dimentico in pochi istanti. Bado solo alle parole. Finché non arriva la mia fermata.
ORE 9.15 Non c’è. Ma è come se ci fosse. Sull’arcata dell’ingresso dell’aula. Potrebbe tranquillamente esserci scritto: “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”. Mi scrollo di dosso l’idea.  Ci siamo: è il momento decisivo. Tra qualche attimo spunterà dalla porta il volto serio del professore seguito da uno stuolo di assistenti, quasi fosse una star del cinema.
ORE 9.35 Odio i ritardatari !!! Sono impaziente. Paura e angoscia si mescolano fino a creare un cocktail micidiale. Sbatto il tacco delle mie eleganti scarpe l’uno contro l’altro. Probabilmente finisco per infastidire qualche compagno di sventura. Ma in questo momento non ci do peso. Giochicchio nervosamente con i capelli, mi guardo intorno, cerco qualcuno con cui scambiare due parole. Con cui condividere la paura.
Poi d’un tratto il silenzio. Come nemmeno al cimitero: adesso il gioco comincia veramente a farsi duro.
E’ arrivata una vera squadra di assistenti, “il professore è impegnato, arriverà più tardi!” dice il suo vice. Tutti pendono dalle sue labbra, come non mai. Lo sa. E si gode il momento. Perciò parla lentamente. Ci tiene sulla corda. Che nervoso!!! Ho qualche amico accanto a me, ma ora preferisco tacere. Attendo nervosamente la parola magica, rinvio, posticipo.
Non si ferma più. E’ prolisso. Fa il simpatico, per questo non mi fido. Continua a sprecare parole. Man mano mi accorgo che è un rinvio assurdo, troppo distante nel tempo. Troppo ravvicinato all’esame successivo. Svantaggioso. Il mio cuore per un attimo sembra fermarsi. Il panico, lesto, mi striscia alle spalle, non trova difese e “mi conquista”. Cerco un sostegno: “Tu cosa fai ?” chiedo al ragazzo accanto, “Non ho scelta… posticipo!”. La secca risposta mi raggela il sangue nelle vene. E’ come se mi avessero appena chiuso una porta in faccia: non so reagire.
Poi un lampo squarcia il mio cielo, e mi fa pronunciare poche sommesse parole “se il gioco si fa duro, fanculo: i duri cominciano a giocare!”. E do il benvenuto alla mia ritrovata sicurezza. Alzo la testa e con sguardo fiero, inchiodo il mio nemico numero uno.
ORE 10.30 Cerco di intuire da qualche gesto o enigmatica parola quando toccherà a me salire sul patibolo. Ma una voce circola tra i “prigionieri”, sarà il professore a decidere il numero delle “esecuzioni” di oggi. Proprio ora comincia il mio peregrinare tra l’aula e il corridoio antistante. In pratica un moto perpetuo.
Non mi resta che attendere, come si fa per un miracolo.
ORE 11.15 Ritorno in aula. Durante il mio girovagare si è consumata una beffa. Ai miei danni: il professore è arrivato. Ha letto la lista con la fermezza di un giudice. Mi ha relegato nell’ultimo girone dei dannati. Poi si è volatilizzato come un’ombra.
Intanto pochi “prigionieri” attendono il loro destino. Si tratta di coloro che sosterranno la prima parte dell’esame: e gli altri? Se qualcuno sa qualcosa me lo faccia sapere.
Intanto la notizia di essere l’ultimo di giornata pesa su di me come un macigno. Non ci voglio credere. Chiedo la conferma a più persone. Tiro un calcio ad una delle vecchie sedie da cinema. Sfogo la mia rabbia. Per un pelo non mi beccano, anzi…forse…chi se ne frega: “Fino a te”, mi dice una ragazza.
Voglio uscire. Voglio urlare. Voglio piangere. Mi agito. Offendo qualche malcapitato. Poi assorbo il colpo: come dice la mia ragazza “sei sfigato, non ci puoi fare nulla”.
Non ci posso fare nulla.
ORE 16.30 Attualmente sono la persona meno affabile del mondo: la mia lingua sparge veleno su qualsiasi cosa mi capiti a tiro. La mia ragazza è ancora con me. Mi sopporta. Dovrò farle un monumento.
Nel frattempo continuo le mie “vasche” tra il corridoio e l’aula. Poi mi appoggio ad un termo, resto lì per qualche minuto. Pronuncio qualche frase sconnessa rivolta agli estranei: lo trovo molto divertente. “Ho bisogno di droga!?!” dico a una. Non mi risponde. Io rido, non è una risata sguaiata o grassa, ma quasi diabolica.
Faccio ridere Simona, Andrea e Francesca: i miei sostenitori morali. Ma vorrei esprimere la rabbia. Sputare la tensione. Li mollo tutti lì. Mi dirigo a grandi passi verso la porta di un’altra aula. E’ aperta: entro. Mi improvviso in un professore, faccio due o tre gesti emblematici. Rido ancora, esco. Proprio quando gli altri mi avevano raggiunto.
Mi sembra “Telethon”: una maratona. Ma spero il mio show personale possa finire presto.
ORE 18.30 E’ ormai da un’ora che sono solo: Simona aveva un impegno stasera, neanche gli altri ci sono più. Non mi resta che vagabondare per i corridoi dell’università alla ricerca di un volto amico. Mi sento un po’ come Robinson Crusoe alla ricerca del suo Venerdì. Ma la facoltà è vuota. Trovo Nicola e Marcello: scrivono gli auguri di Natale. Beati loro.
Noto una sorta di compassione. Un po’ me ne rallegro, un po’ mi fa incaz..re. Torno in aula. La gente si conta: non più di trenta persone. Esco, ormai come da rito.
Sorpresa… c’è una novità. Per fortuna. Ho già letto tutte le bacheche. C’è un signore in attesa: sembra ansioso di fare due chiacchiere. Poco male. Ne ho bisogno anch’io. E’ il padre di una studentessa di Udine, “poveraccia” penso tra me e me. Mi dice che il giorno seguente ha una visita medica, perciò deve essere a casa prima possibile. Istantaneamente mi do dello stupido: ho giudicato senza conoscere. Lasciamo perdere…
Parliamo due secondi. Faccio però a tempo a tuffarmi in un’invettiva. Contro i professori. Contro questa università, che fa schifo. Contro questa disorganizzazione che mi costringe qui. Contro tutto ciò che non funziona nel mio mondo accademico.
ORE 19.30 Non conto più le volte che sono entrato di soppiatto in aula. E nemmeno le volte in cui sono stato “pizzicato” dallo sguardo di assistenti che con gli occhi girovagano distrattamente. Il professore, il capo, non c’è. Sto, intanto sfondando il muro delle 11 ore. Non male. Aspiro al “Guinness dei primati”. La donna che presumo mi interrogherà fa l’appello dei pochi reduci. Quando arriva al mio nome mi rassicura: “Non si preoccupi, prima o poi tocca anche a lei…”. Il mio nervosismo è palpabile.
ORE 19.40 Comunque vada sarà un successo. Sinceramente non che me ne importi più nulla. D’un tratto sento il mio nome. Pronunciato con premura, quasi con tenerezza. E’ il mio turno. Estraggo il libretto dalla tasca della borsa. Affronto il mio destino come fossi della “Vecchia Guardia”: pronto a morire. Non ad arrendermi.
Mi siedo. La tensione si volatilizza solo alla prima domanda. La so!! Wow!! … Chi ben comincia… Siamo in due. Esecuzioni a coppie. Anche il mio collega azzecca la risposta. Tutto sembra prendere la giusta piega. Troppo bello per essere vero…infatti!! Odo le prime parole di una fase truffaldina. Mi preparo al peggio. Indosso l'elmetto, pronto alla trincea.
“Siamo stufi delle solite cose… perché non domandiamo qualcosa di nuovo…?!!”. Se siete studenti universitari sapete che non c’è di peggio. Attendere per una giornata intera. Essere consumati dalla tensione. Ad un passo dallo sfinimento. E nonostante ciò, dover soddisfare gli sfizi di chi vi sta davanti…
Non ho scelta. Mi invento una performance da Oscar. Recito. Non so cosa rispondere. E’ la classica domanda su un argomento inconsistente. Meglio far finta (o no ?!?) di avere un vuoto di memoria. Passo nevroticamente la mano tra i capelli. Bofonchio qualcosa. Cerco di dare l’impressione di voler spremere la risposta dal mio cervello. Probabilmente è anche vero. E’ la prima volta che temo di essere bocciato. Non mi è mai capitato. L’attesa della domanda successiva è spasmodica. Mi sento come un naufrago che attende una nave di passaggio. Forse anche peggio. Finalmente arriva. Sto sudando freddo. Ma subito mi rinfranca. Tiro un mentale respiro di sollievo. So anche questa. Forse prima ho esagerato. Direi che la risposta è quasi esauriente. Non perfetta, certo. Ma riesco a malapena a collegare il mio cervello. “Basta così…”. L’esame è finito. Ci fanno accomodare. E’ finita. L’ho spuntata anche questa volta. Decidono il giudizio. Ventuno. Sono un po’ deluso. Avevo ventitré. Mi ha abbassato il voto. Amen. A quest’ora non potevo fare altro. Non ho tempo per recriminare. Attendo che sia messo nero su bianco. Tutto fatto. Rien ne va plus. Esco dal tempio dell’ingiustizia. Guardo l’orologio.
ORE 20.15 Mi incammino. L’autobus mi aspetta. “Chissà se il professore è tornato?”, penso. Poi ho solo voglia di dimenticare. E la luce si spegne.

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