Sono passati centinaia e centinaia di minuti dalla fine di Juventus-Roma (perdonatemelo, ma si tratta del mio personale “attentato di Sarajevo”: non ho intenzione di ammorbarvi ancora con lo sport) e uno si aspetterebbe che piano piano il fuoco si spegnesse. Le braci lasciassero spazio alla cenere.
Invece,
sono proseguiti strilli e strepiti, “era rigore non era rigore”, “era dentro
era fuori area”, finché un avvocato, professore universitario, ex sottosegretario,
persino, non ha dichiarato ad una trasmissione radiofonica qualcosa come “dopo
ieri viene voglia di prendere il mitra”.
E
poco importa che qualche minuto dopo abbia edulcorato il concetto in “mitra
figurato”. Ormai, come una carta messa in tavola durante una partita di scopa
quelle parole restano. Anzi, non solo restano, ma dimostrano come la nostra sia
la “società delle iperboli”. La “società dell’issimo”.
Tutto
è bellissimo. Straordinario. Incredibile. Pazzesco. Saltando a passo di canguro
il reale significato di tali termini. Abbandonando il non credibile o il fuori
dall’ordinario fino ad inventare nuove iperboli perché quelle esistenti non
bastano più. E allora via con le composizioni artistiche come eccezionalmente
straordinario (praticamente impossibile da realizzare?) o incredibilmente bello
(altro che Adone). Uno scarso attaccamento alla realtà, una verità adornata ai
limiti del barocco o imbruttita lambendo l’obbrobrio.
In
ogni caso siamo produttori di una verità stiracchiata, di qua o di là. Non credo
che in passato non accadesse (senza alcuna pretesa da storico o da filologo) altrimenti
non ci spiegheremmo le molte leggende in cui le caratteristiche dei personaggi
erano spesso assolutizzate. Semplificate oserei dire.
Il
dubbio, però, è che le leggende così come le iperboli si adattino perfettamente
(zac!) ad un popolo credulone, poco abituato ad esercitare lo spirito critico.
In
poche parole tutt’altro che “issimo”.