Sto
percorrendo la strada che separa un reparto dall’ospedale da un altro. Mi muovo
veloce, perché devo andare al lavoro e mi porto appresso il macigno raccolto
davanti alla sala operatoria nelle tre ore di attesa precedenti. Piccolo tratto
percorso insieme a persone care che rimarranno ancora lì a lungo.
Ci
penso finché attendo che il semaforo pedonale diventi verde e realizzo, nei
pochi istanti di rosso, che non so cosa mi aspetterà dall’altra parte.
Nel
frattempo incrocio sguardi, persone, odori e non li catalogo: mi sfiorano
soltanto in questa avanzata veloce verso il nono piano di un altro edificio dell’ospedale.
Risalgo
la rampa che porta all’ingresso. E finché divoro a lunghi passi la pendenza, il
macigno si sta sgretolando in tanti piccoli sassolini che spingono per uscire
dagli occhi come fossero lacrime.
Improvvisamente
noto due persone tra le tante. Lei indossa un piumino color argento e tiene per
mano un ragazzo più alto di lei. Si muove veemente. Si agita e contorce con in
mano il telefono spiegando che prima ci saranno degli altri esami,
approfondimenti, consulti e poi la terapia.
Il
modo in cui lo dice, l’aggressività che distribuisce, è un manifesto. E’ la Guerriera.
Lei la malattia la vuole vincere. La deve vincere. Non so se sia la sua o
quella di qualcun altro. Non importa. Non so nemmeno se ce la farà. Non
importa. E’ un’istantanea di sentimenti. Una polaroid della rabbia. Un negativo
della volontà.
Finché
cammino l’immagine scorre. La Guerriera sparisce come se qualcuno avesse
premuto il pulsante e fosse apparsa una nuova diapositiva. Mi sembra di sentire
il clic e il movimento meccanico del carrellino.
Appare
un’altra donna. Qualche anno in più della prima. E’ infagottata in un piumino
beige. Forse straniera. Viso e occhi sono rossi. Lacrime. Tante. Il telefono
quasi a nascondersi. Come se io stessi frugando nella sua intimità. Più probabilmente,
però, non si è nemmeno accorta di me. Troppo dolore attraversa il suo cuore.
Cerca di dirlo a qualcun altro. Ma ho l’impressione che non ci riesca. E’
troppo.
Continuo
a camminare veloce. Proseguo. Altro click. Sparisce.
Varco
le porte automatiche segnalate da strisce giallo-nere e mi incammino verso uno
degli ascensori. Parlo al telefono. Tutti qui, chi più chi meno, aggiornano
altri. Spartiscono il carico di sofferenza. Sospirano. Trasmettono. O almeno è quello
che penso oggi.
Salgo
in ascensore e continuo a parlare. Con me una signora anziana, ha un maglione
blu e degli spessi occhiali da vista con una montatura nera. Lo stereotipo
perfetto della professoressa in pensione. Finché parlo vedo che annuisce. Ascolta.
Capisce. Condivide. Com-patisce. Forse sospira anche lei. Lo faccio di nuovo
anche io.
Arrivederci,
penso.
Piano
dopo piano la salita mi è divenuta più leggera. Meno pesante, forse. Il timore
di non sapere cosa dovrò affrontare un po’ più su si assottiglia. Come se fosse
raschiato via con una spatola.
E’
il frutto di un nuovo pensiero che si è affacciato alla mia mente.
Non
sono solo.
Nonostante
tutto, non sono solo.