domenica 6 novembre 2016

Diapositive

Sto percorrendo la strada che separa un reparto dall’ospedale da un altro. Mi muovo veloce, perché devo andare al lavoro e mi porto appresso il macigno raccolto davanti alla sala operatoria nelle tre ore di attesa precedenti. Piccolo tratto percorso insieme a persone care che rimarranno ancora lì a lungo.
Ci penso finché attendo che il semaforo pedonale diventi verde e realizzo, nei pochi istanti di rosso, che non so cosa mi aspetterà dall’altra parte.
Nel frattempo incrocio sguardi, persone, odori e non li catalogo: mi sfiorano soltanto in questa avanzata veloce verso il nono piano di un altro edificio dell’ospedale.
Risalgo la rampa che porta all’ingresso. E finché divoro a lunghi passi la pendenza, il macigno si sta sgretolando in tanti piccoli sassolini che spingono per uscire dagli occhi come fossero lacrime.
Improvvisamente noto due persone tra le tante. Lei indossa un piumino color argento e tiene per mano un ragazzo più alto di lei. Si muove veemente. Si agita e contorce con in mano il telefono spiegando che prima ci saranno degli altri esami, approfondimenti, consulti e poi la terapia.
Il modo in cui lo dice, l’aggressività che distribuisce, è un manifesto. E’ la Guerriera. Lei la malattia la vuole vincere. La deve vincere. Non so se sia la sua o quella di qualcun altro. Non importa. Non so nemmeno se ce la farà. Non importa. E’ un’istantanea di sentimenti. Una polaroid della rabbia. Un negativo della volontà.
Finché cammino l’immagine scorre. La Guerriera sparisce come se qualcuno avesse premuto il pulsante e fosse apparsa una nuova diapositiva. Mi sembra di sentire il clic e il movimento meccanico del carrellino.
Appare un’altra donna. Qualche anno in più della prima. E’ infagottata in un piumino beige. Forse straniera. Viso e occhi sono rossi. Lacrime. Tante. Il telefono quasi a nascondersi. Come se io stessi frugando nella sua intimità. Più probabilmente, però, non si è nemmeno accorta di me. Troppo dolore attraversa il suo cuore. Cerca di dirlo a qualcun altro. Ma ho l’impressione che non ci riesca. E’ troppo.
Continuo a camminare veloce. Proseguo. Altro click. Sparisce.
Varco le porte automatiche segnalate da strisce giallo-nere e mi incammino verso uno degli ascensori. Parlo al telefono. Tutti qui, chi più chi meno, aggiornano altri. Spartiscono il carico di sofferenza. Sospirano. Trasmettono. O almeno è quello che penso oggi.
Salgo in ascensore e continuo a parlare. Con me una signora anziana, ha un maglione blu e degli spessi occhiali da vista con una montatura nera. Lo stereotipo perfetto della professoressa in pensione. Finché parlo vedo che annuisce. Ascolta. Capisce. Condivide. Com-patisce. Forse sospira anche lei. Lo faccio di nuovo anche io.
Arrivederci, penso.
Piano dopo piano la salita mi è divenuta più leggera. Meno pesante, forse. Il timore di non sapere cosa dovrò affrontare un po’ più su si assottiglia. Come se fosse raschiato via con una spatola.
E’ il frutto di un nuovo pensiero che si è affacciato alla mia mente.
Non sono solo. 
Nonostante tutto, non sono solo. 

martedì 16 agosto 2016

Olimpia è morta...

...e l'ho uccisa io! 
Ho già avuto modo di raccontarvi che valore abbiano i Giochi Olimpici per il sottoscritto. Mi immergo nell'avventura a cinque cerchi, guardo qualsiasi evento mi passi sotto il naso, la respiro come fossi lì. Ho persino sognato di fare il volontario. 
L'amore per Olimpia era in crisi da un po'. Qui, infatti, mi chiedevo dove fosse finita.
Eppure l'ho avvelenata.
Tutto nasce dal «caso Schwazer» chiusosi con l'annunciato epilogo. 
Da lì è nata la mia "ossessione di doping". Il voler capire. Il voler conoscere. Il non voler credere all'ennesimo tradimento.
Parola dopo parola degli articoli di Fabio Cammalleri (La Voce di New York) e di Eugenio Capodacqua (La Repubblica). Pagina dopo pagina di "Campioni senza valore" o de "Lo sport del doping" di Sandro Donati. Frame dopo frame delle analisi di Nando Sanvito (Sport Mediaset).
Sono state tante piccole gocce di Belladonna con cui ho avvelenato Olimpia.
L'ho ammorbata ed ora giace lì, splendente come sempre, ma privata della sua linfa.
Perché leggendo, ascoltando, connettendo, il quadro che ho avuto modo di dipingere per allestire la mia personale galleria è fatto di colori bui. Tetri. Di soldi intascati per nascondere il doping di stato. E' fatto di commissioni antidoping non credibili. Di personaggi - dell'antidoping - che in telefonate intercettate dicono:
– Sono Giuseppe Fischetto, come stai?
– O Giuseppe ciao come stai?
– Un po’ incazzato con la giustizia, avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto di più. Son venuti da me, da Rita (Bottiglieri, NdR), prima a casa da Fiorella (l’altro medico al centro del caso, NdR) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer
– Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?
- Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh… che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengon fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf
E così alle pennellate di ingiustizia nei confronti di Alex Schwazer si sono aggiunte quelle oscure che opacizzano il mondo dello sport. Trasformandolo da Sport in sport.
Nel frattempo, Olimpia, la mia personalissima Olimpia, si avvelenava. La vernice tossica del mio quadro la uccideva. Le toglieva l'aria. Toglieva anche il dubbio, la speranza, la volontà di crederci. E così, ogni singolo risultato finisce per essere un concentrato di inverosimiglianza. Ogni medaglia rischia di nascondere una superficie torbida che appare solo facendola roteare come un pendolo sul nastro che la trattiene.
Non ho seguito le gesta dei centometristi. Non mi sono alzato all'alba come ho fatto altre volte. Non ne ho avuto la voglia. Non ho seguito il ciclismo. Non seguirò l'atletica in generale. Forse ho scelto di togliere agli atleti la patina di eroismo che li rende luccicanti. Proverò a godere delle emozioni regalate dalle discipline tecniche in cui non ci siano muscoli da gonfiare, resistenze da aiutare o fatiche da addolcire.
Perché, nonostante tutto, per ora, non riesco a fare a meno di lei.
Anche se Olimpia è morta.
E non me ne ero nemmeno accorto.



domenica 24 luglio 2016

Estate... Light

Estate. Nonostante questi mala tempora in cui pazzi assassini e Pokemon si alternano schizofrenicamente proviamo a distrarci e a risalire con leggerezza il corso delle nostre esistenze. E, allora, estate, uscite, serate, amici. Di solito non mi piacciono le banalizzazioni con cui si categorizzano le persone, ma questo vuole essere più che altro un gioco in cui provo ad identificare i personaggi mitologici che accompagnano le nostre serate estive in compagnia.
Eccoci allora a presentarvi in rigoroso ordine sparso…
L’INDECISO
Alle proposte reagisce lasciandosi aperta sempre una via di fuga. Le sue frasi cult sono “penso di sì”, “ti faccio sapere”, “magari ci aggiorniamo sotto sera…”. Non vuole legami, ma all’ultimo di solito si aggrega. A volte vuole consultare la compagna, ma se ne è sprovvisto è comunque un “Peter Pan dei rendez-vous”. A volte l’indeciso per una strana mutazione genetica si trasforma nel Tirapacchi.
IL RITARDATARIO
Lui c’è, ma di solito arriva mezz’ora dopo rispetto all’appuntamento fissato. Telefona, scrive un messaggio o registra un audio vocale per farvi sapere che non è morto. Normalmente lo fa appena partito da casa - o peggio quando sta per salire in auto - e ha già guadagnato un discreto ritardo. La sua frase tipica? “Sto arrivando!” o se più pessimista “Dove vi raggiungo?”.
IL PUNTUALE
Questo personaggio è stato oggetto di ampia discussione con una ritardataria. Però, ve lo ciucciate lo stesso perché alla fine l’ho spuntata io. Di solito se l’appuntamento è alle 20.00 lui è già in loco sin dalle 19.50. Sembra il capitano di una nave da crociera che, cappello in testa e sorriso durbans spunta dal proprio elenco il nominativo dei passeggeri. Non è escluso che prima o poi non ve lo troviate sul serio con un banchetto ed un elenco. In alternativa tenterà di manomettere l’orologio del ritardatario rispetto al quale si trova d’accordo solo su un concetto: ci raggiungerà.
IL TIRAPACCHI O BIDONARO
Inizialmente accoglie le proposte del gruppo salvo poi tirarsi indietro all’ultimo minuto invocando scuse di ogni genere: “scusate, ma sono sul water da questa mattina”, “scusate, ma ho gente a casa”, “scusate, ma sono proprio stanco”. “Scusate, ma ho un’invasione di termiti enormi che stanno devastando casa”. “Mi deve arrivare l’idraulico” (alle otto di sabato sera?!?). In confronto John Belushi nei “Blues Brothers” (https://goo.gl/uGttRN) è un dilettante!

lunedì 27 giugno 2016

E se non ci fosse ricascato?

"Schwazer ci risiamo". 
Quando ho letto questo titolo sul sito della Gazzetta dello Sport sono trasecolato. Alex Schwazer ci è ricascato. Capital letters. La dimensione dei caratteri a scrivere una sentenza.
La notizia oltre ad avermi sbalordito mi ha anche amareggiato. Sono consapevole che non sia la notizia peggiore che si possa leggere su un giornale, anzi, ma così è stato. Poi, me ne sono andato a dormire. Come per far sparire la notizia.
Il giorno dopo, in treno,  a mente fredda, mi sono chiesto come mai questa notizia mi avesse rattristato. E perché avesse già provocato tante reazioni ambivalenti (media e social ne sono invasi/invasati): da un lato chi già condannava senza appello l’atleta e, dall’altro, chi si chiedeva come potesse esserci ricascato dopo aver scelto come allenatore Sandro Donati, vessillo della lotta senza quartiere al doping.
Non credo che tali reazioni abbiano tanto a che fare con lo sport. O quanto meno non solo.
Credo che queste sensazioni abbiano più a che fare con l’animo umano. Con la buona fede. Con l’ideale, quello con la I maiuscola. Con il raggiro. Con il sentirsi derubati. Ecco perché probabilmente si sono mischiate rabbia e mestizia. Ecco perché si sono create subito due fazioni. L'unica cosa certa è che vi sia poco di chiaro nella vicenda (dalle bistecche ai tempi delle analisi, sino alle provette non anonime come dovrebbero, ma vi rimando agli articoli in fondo se vorrete approfondire). Non sono un esperto di analisi e controanalisi. Di steroidi anabolizzanti o ancora di spettrometrie di masse isotopiche. Non ho le competenze di un fisioterapista e rivendico la mia ignoranza in materia di fasce muscolari. Però credo nello Sport. Perché lo pratico. Perché lo seguo. Perché mi entusiasma ancora. Nonostante il mio amore vacilli (http://goo.gl/OyLjNG), nonostante gli scandali, i tranelli e le imboscate.
Tutto ciò ha a più che fare con l’essere umano. Con il suo animo. Con la fiducia che può o non può ispirare. Sulla fiducia che può o non può essere tradita.
E forse, in fin dei conti, il caso Schwazer ci ricorda ognuno di noi. O, ancora, è la voglia di una fiaba a lieto fine.
La voglia di credere nell’uomo che cade nel fango.
Che si sporca le mani nella melma.
Che macchia lo Sport.
Ma anche dell’uomo che si rialza dopo essere sprofondato nell'abisso.
Della possibilità di ricominciare. 
Della chance che ognuno di noi vorrebbe avere quando commette un grave errore. Di un tasto Rewind con cui, dopo aver pagato il fio, si possa riavvolgere il nastro della vita. Sportiva o meno poco importa.
Forse più che con lo sport la vicenda del marciatore di Racines riguarda tutti noi.
La redenzione. La voglia di pulire la maglia e rialzarsi.  
Il diritto ad una riabilitazione affinché la pena non sia eterna. 
La possibilità di premere ancora “Play”. Cominciare a risalire i gradini nonostante ci sia chi ti ricorda a gran voce che hai sbagliato, che hai tradito, che sarai sempre e soltanto “quello”. 
Come tu non fossi altro che la cristallizzazione del tradimento. L’istantanea perpetua dell’errore. 
Ecco, forse è per questo motivo che mi sta a cuore la vicenda.
Ed è per lo stesso motivo che mi auguro che Alex Schwazer ne esca pulito, senza ombra di dubbio.
Perché non si tratta di un atleta dopato in più o in meno sull'abaco delle prestazioni adulterate. 
Perché se invece fosse provata in maniera inconfutabile la ricaduta il tradimento rischierebbe di essere doppio.



Linkoteca


Ansa.it: Schwazer: "Possibile causa una bistecca" 







domenica 1 maggio 2016

Benvenuti al Bello

Ho riflettuto a lungo se scrivere un post su quanto accaduto al Bataclan e a Parigi. Ne ho iniziati diversi. Pensavo di avere qualcosa da dire. 
Poi, col passare dei giorni e delle settimane, ho meditato sull’indignazione à la carte che ne è seguita: per Parigi sì, per Bruxelles sì, per Ankara no, per il Mali no, per Beirut no.
Ho scritto, riscritto. Cancellato. Abortito. Ripreso in mano. Definitivamente cassato.
Sì, perché ho deciso che, essendo trascorso un po’ di tempo - molto tempo ad essere sinceri - dall’ultimo post, voglio raccontarvi qualcosa di Bello. 
Escludere il Male all'esterno di questo spazio. Almeno per ora. In fin dei conti, il mondo è già tappezzato di fatti orribili.
E allora mi  è bastato scivolare con la memoria indietro di qualche mese.
E tornare al viaggio (strano, no?). Alla cultura. Alla natura. Alla meraviglia della quale mi sono ingozzato in Australia.

Quindi, non perdiamo (altro) tempo e cominciamo!

A.  come Australia. Non poteva che iniziare così questo giochino. Un sogno. Se qualche tempo fa mi avessero chiesto dove sarei voluto andare per un viaggio con budget illimitato - ergo: non ti preoccupare di quanto possa costare - avrei detto, senza ombra di dubbio, Australia. Sogno realizzato, dunque. Ma c’è ancora tanto Mondo da vedere…