Sean
Dewberry aveva lasciato il molo 6 qualche ora prima. Aveva atteso la
fine del temporale, e poi con la sua barca si era inoltrato in mare
aperto. Come sempre. Andava a pescare spesso, soprattutto negli
ultimi tempi. Lo trovava rilassante. E lui aveva bisogno di pace. Il
suo viso di giovanotto annoiato si fece più teso quando depositò la
canna sul fondo della piccola imbarcazione. I capelli neri erano
ormai sempre più radi, si trattava del souvenir dell'ultimo
angosciante mese. Aprì la borsa che aveva con sé e si infilò la
muta da sub. Sedette e attese. Si guardò intorno. Estrasse il
binocolo e scrutò il mare in ogni direzione. Nessuno. Era abbastanza
distante dalla costa. Nessuna imbarcazione in vista. Prese la tanica
di benzina e la rovesciò su scafo e motore. Poi Sean si accese
l'ultima sigaretta. Ne diede un'unica lunga tirata, come per
appropriarsi dell'essenza. Prima di tuffarsi in acqua la lasciò
scivolare dalle sue dita nel piccolo scafo.
Le
fiamme avvolsero la barca, come in un manto. Il fuoco non osò
nemmeno sfiorarlo, come un novellino alle prime armi nei confronti di
un veterano. Si allontanò mentre ancora i bagliori illuminavano il
mare.
Pochi
secondi dopo udì, come qualcosa di incredibilmente distante,
l'esplosione del motore. Fu solo un'impressione.
Era
a distanza di sicurezza, non chilometri più in là come la sua mente
avrebbe voluto fargli credere. Ora mancavano meno di due ore dalla
costa. Con pinne su mani e piedi era uno scherzo per un nuotatore
come lui. Ripensò a quei giorni. Alle angosce. Alle paure.
Sì!
Aveva
deciso per il meglio
Nuotò
con vigore, finché il buio si sostituì alla luce nell'eterna
maratona verso l'infinito. A poco a poco. Sulle spalle un piccolo
zainetto chiuso ermeticamente. Dentro dei soldi, dei vestiti, una
forbice e il suo rasoio.
Finalmente
scorse la costa. Ora poteva dirlo. Sean era morto, al suo posto
approdava alla riva Nathan Russell. Salì sulle rocce, che davano sul
mare, con un vigore ritrovato, come se fosse stato davvero un'altra
persona. Ormai era vicino alla sua via d'uscita. Si distrasse un
attimo, quel tanto che gli costò una piccola ferita al piede su una
roccia appuntita. Non sentì nulla. Continuò ad avanzare finché
giunse sul ciglio della strada. C'era già stato una settimana prima.
Non era molto trafficata, così poté liberarsi della muta e
indossare vestiti asciutti. Poi Nathan s'incamminò verso est. La
direzione opposta rispetto a quella da cui proveniva. Camminò per un
paio di miglia, aveva raggiunto la sua prima meta: un motel. Non era
un granché, ma già lo sapeva, era per questo che faceva al caso
suo. Pagò in anticipo il trasandato gestore, non prima di averlo
etichettato come assiduo lettore di riviste pornografiche. Entrò in
camera e rifletté sul valore economico di 20 dollari. Quantomeno era
pulita. Prese la forbice ed andò dinanzi allo specchio nel bagno, e
cominciò ad accorciarsi i capelli con la forbice. Poi iniziò a
rasarsi il cranio. Ripensò a Geena, adorava i suoi capelli. Tagliò
tutto.
Poi
si stese sul letto e cominciò a capire cosa volesse significare quel
giorno per lui. Ripensò al suo passato, e perso nelle sue fantasie,
come in un labirinto, cadde in uno strano stato di dormiveglia.
L'arredamento
intorno a lui era scarno. Il letto molle, un comodino recuperato da
un rigattiere della zona e un'abat-jour che non c'entrava nulla.
Dimenticare casa sua sarebbe stato impossibile.
Sean
Dewberry era morto in mare. Niente di meglio per un amante della
pesca. Nathan odiava la pesca. Ripensò alla minuziosa preparazione
del suo piano. "Scomparire è possibile", aveva pensato.
Aveva abbandonato dubbi e certezze. Per ricominciare. Ora dormiva, e
non pensava agli interminabili momenti trascorsi piangendo. Senza
trovare una soluzione. Una scappatoia. Aveva trascurato il suo lavoro
da meccanico. Era diventato spigoloso e tagliente. Aveva perso il
vizio dell'allegria. La sera si ubriacava. Con Geena, anziché
allearsi contro il nemico comune, aveva iniziato una personale
"guerra civile tra disperati". La settimana antecedente
alla sua decisione fu un inferno. Sempre lo stesso dannato pensiero a
marchiargli la mente, come fosse stato un capo di bestiame. Poi, dopo
aver progettato la fuga, tutto era tornato come prima. Quando si è
trovata una via d'uscita, tutto diventa sopportabile, qualsiasi cosa.
E Sean stava già scalando il muro di cinta della sua personalissima
prigione.
Parlare
con Geena non serviva, anzi forse era peggio, anche se si trovavano
entrambi, sulla stessa proverbiale barca, erano soli. Anche Geena lo
sentiva, ma il defunto Sean Dewberry ne era ossessionato.
Tutto
ha un inizio ed una fine, aveva sentito dire a qualche guru. Già,
solo che i suoi, se li era scelti. Nathan si svegliò al mattino
presto e se ne andò a piedi. Si sforzava di mettere più miglia
possibili tra sé e Geena. Tra sé e il problema. Arrivato alla
stazione degli autobus ne prese uno di quelli che attraversano gli
stati. Comprò un capellino degli "Yankees". Ma non
funzionava. Più Nathan si allontanava, e più i pensieri lo
riportavano a casa. Aggiungeva un miglio e bussava alla porta un
ricordo, come nel trucco delle spade infilzate sulla cassa.
Nessun
miglio in più uccideva la fidata assistente del mago. Nessuna spada
in più affondava nei suoi pensieri. Ripercorse istante per istante
l'ultimo mese. E la macchina del tempo si fermò a quel 13 maggio.
Geena gli aveva detto semplicemente: "Ho un ritardo...".
Sean
era abituato ai suoi ritardi, una volta avevano atteso due settimane
nella più totale angoscia. Poi tutto si era risolto per il meglio.
Sean, più volte, aveva pensato al test.
Ma
finiva sempre per scartare l'idea. Si immaginava il suo bel volto da
ventenne nel negozio della signora Trinkemann, la farmacista. Il
rossore sulle guance e lo sguardo beffardo di lei, a rimproverarlo.
Tanto più che sarebbe stato decisamente meglio non sapere. Come se
si fosse potuto rimandare in eterno il momento della responsabilità.
Come se qualche giorno in più avesse potuto portare con sé
miracolosi benefici. E non un ulteriore carico d'angoscia.
"No...",
si era detto "... e se fosse incinta... te lo immagini...".
In quel mese non accadde nulla. Si riproposero, solo, di non farlo
più con il preservativo. Geena promise di prendere la pillola.
Probabilmente, non si erano resi conto che ormai era troppo tardi.
Il
sole lo infastidì non poco, e calò ancor di più il frontino sulla
testa. Era diretto ad Atlanta, da lì, con i documenti falsi che si
era procurato tramite un sito Internet, avrebbe spiccato il volo.
Letteralmente.
In
quel momento il suo unico rimpianto era non poter assistere al suo
funerale. Lo aveva sempre desiderato, per scoprire quanto gli
volevano bene, o quanto lo odiavano.
Insomma
sarebbe stata la prova suprema della altrui sincerità. Si immaginò
arrampicato su un albero. Nascosto tra le fronde, un centinaio di
metri più distante, con il suo potente cannocchiale intento a
scrutare. I visi. Le lacrime. Gli occhi. Alla ricerca dei sentimenti
serbati nel cuore di Geena, di sua madre, di suo padre. Di Tango, il
suo migliore amico. Di tutti. Perfino di Lalas, il cane, così
chiamato in onore del suo calciatore e cantante preferito.
Nel
frattempo l'autobus si era fermato ad una stazione di servizio.
Nathan scese e si fece consegnare la chiave del bagno. Poi comprò un
giornale locale e un paio di sandwich. Ormai era da parecchie ore che
aveva lasciato la stazione di Port Saint Joe e Atlanta si rendeva
sempre più desiderabile.
Sedutosi
nuovamente sul sedile ben imbottito, prese in mano il quotidiano e lo
lesse avidamente. Non trovò nulla. Nemmeno un trafiletto su un
pescatore saltato in aria con la sua barchetta. Nathan giurò a se
stesso che non avrebbe più comprato la "Greenville Gazette".
"Che
razza di nome...", disse ridacchiando, ma non si lasciò
trasportare oltre, dalla collera.
Ne
approfittò allora per tornare sul luogo del delitto e rappresentarsi
cosa realmente avesse spaventato Sean.
Probabilmente
il giudizio della gente: non abitava in una grande città. Anzi, in
realtà si trattava di un paese del più profondo sud. Nella parte
degli Stati, in cui la Florida confina con Alabama e Mississipi. Gli
stati del Ku Klux Klan. Gli stati più puritani d'America, forse del
mondo.
Con
lo sguardo, all'interno del bus, cercò un personaggio "da Sud".
Ne identificò subito una, seduta accanto all'autista. Stava
pontificando con il suo atteggiamento di onniscienza, su "... i
giovani d'oggi... sa, sono fatti così...", aveva lo sguardo
severo, e la sua eleganza appariva un po' antica, come se avesse
comprato i suoi abiti presso un negozio di costumi teatrali.
Questo
tipo di persone erano e sarebbero state la rovina di Sean. Nathan,
già se lo immaginava. Sarebbe bastata una gomitata e due amiche di
vecchia data si sarebbero scambiate una frase del tipo:
"...
guarda, quello è il figlio di Louise e Ted, ha messo incinta Geena
Dixon...".
E
l'altra: "Nooo... ma dai...", e via con le danze...
Sean
non avrebbe resistito agli sguardi complici, ai sorrisetti ironici e
malvagi. All'ipocrisia della gente. Nathan ripensò con piacere alla
coppia che insieme alle partecipazioni di matrimonio, aveva inviato
anche il nome del loro futuro primogenito.
"Ben
fatto!".
Chissà
quante volte Geena e Sean sarebbero divenuti l'oggetto delle
discussioni altrui. Quante volte il tema del giorno, o la portata
principale del menù del ristorante del pettegolezzo. Tutto questo
ossessionava Sean. Questa era la mano che lo aveva spinto tra le
braccia della morte.
Ad
ogni fermata, Nathan scendeva e comprava un giornale, sul quale
cercava notizie di Sean. Le prime volte con curiosità. Poi con
ardore, ed infine con indignazione. Sfogliava il giornale con rabbia,
lo leggeva in ogni sua parte. E la sua attenzione si moltiplicava
quando il suo sguardo incrociava i necrologi. Ogni volta sempre con
maggiore attesa e trepidazione. Ed ogni volta una cocente delusione
era pronta ad attenderlo al varco dell'editoria quotidiana made in
Usa.
Continuò
così per ore che sembrarono minuti, e per minuti che sembrarono
secondi. Il trascorrere del tempo infatti sfiorava l'irreale, come se
la sabbia scorresse in una vecchia e stanca clessidra, che chiede
solo la meritata pensione.
Atlanta
sembrò verosimilmente più vicina che mai. Nathan sapeva che quella
città sarebbe stata, per lui, la fine e l'inizio.
Scese
dall'autobus con l'entusiasmo di un bambino in gita con la scuola.
Poi si fece suggerire dal simpatico edicolante un albergo pulito, ma
non troppo costoso. Ricompensò il venditore con l'acquisto
dell'ennesimo giornale.
Poi
si diresse a piedi verso la direzione indicatagli. Non badò troppo
alle auto che infastidivano, con i loro rumori molesti, i passanti
come lui. Non ebbe cura di tutte le altre cose che gli accadevano
intorno. Era leggero, e camminava venti centimetri più alto da
terra. Fu un rischio, perché la gradinata dell'albergo per poco non
si pose d'inciampo.
Salì
in camera e si buttò sul letto. A volo d'angelo. Come il neonato
Nathan Russel non aveva mai fatto.
Fece
una doccia e si cambiò. Poi uscì di nuovo. Mangiò un hot-dog, con
tanto ketchup, proprio come piaceva a lui.
Dopo
pranzo cominciò il suo peregrinare da un'edicola all'altra. Ad
ognuna comprò un quotidiano diverso, nella disperata rincorsa a Sean
Dewberry, il defunto Sean Dewberry. Evitò di comprare ventiquattro
quotidiani presso un unico negoziante. Avrebbe provocato sospetti.
Completò il giro solo verso le cinque del pomeriggio, o almeno così
gli parve. Non che avesse molta importanza, in realtà.
Comunque
si ritirò nella sua stanza e prima di ricominciare la sua affannosa
ricerca, accese il televisore. Ma nessuno sembrava sapere di un
pescatore morto in mare al largo di Port Sulphure. Allora riprese la
sua impresa titanica. Lesse il primo. Poi il secondo. Il terzo. Ma
solo dal settimo cominciò a innervosirsi. "Possibile che
nessuno sappia nulla di Sean...". Inviperito continuò lo
spoglio. Il decimo fu accartocciato e gettato contro il vetro della
finestra. Undicesimo e dodicesimo scomparvero in mille strisce
filanti pronte per Halloween.
"Nessuno
sa...".
"Nessuno
lo sa!". Dapprima era un'invocazione, poi una terribile paura.
Ma non si fermava. E il suo ritmo ora era forsennato. La televisione
annunciava l'ennesimo notiziario a volume iperbolico. Non gettò la
spugna e ne lesse un altro. E poi un altro. E ancora. Ma più si
avvicinava all'ultimo che aveva comprato e più lo assaliva una
sensazione di disperazione e panico.
Era
indiavolato. Leggeva e rileggeva, magari più volte le stesse frasi,
gli stessi articoli con maniacale precisione volta a non tralasciare
nulla. Volta alla perfezione. Eppure non c'era nulla. Nulla. Si
appigliò all'ultimo, con le residue speranze, come un naufrago in
attesa di una nave di passaggio. Con la consapevolezza che sarà
l'ultima chance.
Probabilmente
l'unica.
Eppure
non c'era nulla. Giunse ai necrologi, e non vide nulla: nessuna
famiglia Dewberry. Nessuna Geena Dixon e famiglia.
Nulla.
Dapprima quest'idea si fece silenziosamente largo nella sua mente.
Fino a diventare così implacabile che poteva essere urlata.
"Nulla!".
"Nulla!".
"Nulla!".
"Nulla!".
Sean
cadde dal letto, urlando come un ossesso "Nulla!".
Sbatté
la testa sul comodino. E la luce che filtrava dalla tapparella lo
colpì con un montante da ko. Cercò di riaddormentarsi e anche se
con fatica vi riuscì. D'altronde era normale fare brutti sogni.
La
mattina seguente si vestì ed andò a casa di Geena. Era il giorno in
cui avevano deciso di dirlo ai suoi genitori.
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