domenica 19 febbraio 2017

Avrei voluto, ma...

Scendo dal treno, intorno all’una e mezza a Venezia Santa Lucia, stazione ferroviaria che, inopinatamente, una conoscente (no, giuro, non sto prendendo le distanze, è davvero una conoscente!), leggendo il cartello Venezia S. L., ha chiamato “Venezia sulla Laguna” scatenando una certa ilarità.
Smontando dal gradino mi accorgo che sul treno c’era una mandria di ragazzini. Fortunatamente non li ho incrociati nella mia carrozza: non avevo davvero voglia di ormoni impazziti come la maionese, selfie come se piovesse o risate e urla sopra soglia di tollerabilità. Devo prendere atto che sto irrimediabilmente diventando vecchio!
Li lascio sfilare e mi accodo agli ultimi del loro assembramento e li mantengo, in maniera sana, a poco meno di un metro di distanza.
Come spesso mi accade osservo, guardo, ascolto. Mi sembra di essere un sociologo del trasporto pubblico, in realtà, molto più banalmente, sono curioso.
In particolare, osservo gli ultimi tre del gruppo.
Ridono e scherzano ad alta voce. Ce n’è uno più alto degli altri che sembra essere il leader. Jeans attillati con l’immancabile risvoltino, niente calzini, giubbotto con cappuccio per temperature artiche, capelli cortissimi e, cosa che mi stupisce non poco, apparecchio ai denti. Ha la barba, deve essere cosa recente, ma tanto basta per renderlo più adulto. Più grande. Più leader.
Gli altri due sono a rimorchio. Entrambi assomigliano a quei cuccioli che corrono un po’ dinoccolati, magari in diagonale, con le orecchie che vanno di qua e di là.
Uno dei due, vestito grosso modo come il capo, sta chiacchierando e sghignazzando: deve essere la sensazione di libertà e di briglie sciolte che solo una gita scolastica sa dare, anche se si è ormai al ritorno. Dal treno è scesa molta gente e devo stare attento a dove metto i piedi: ci sono, infatti, le classiche fermate da turista (visionare la guida, di già?!) o da lavoratore impaziente (accensione sigaretta appena posato piede sul marciapiede).
Sento che uno dei tre, guardando gli altri due, mentre cammina, dice: «Hai visto che figata...». E’ voltato verso sinistra e muove le mani, descrive, racconta, mi sembra entusiasta. E’ un attimo. Mentre cammina, parla, ride, pensa, guarda in faccia i suoi interlocutori. Non si accorge, però, della panchina che giace sul binario da un discreto numero di anni e ci sbatte contro. Sta camminando lentamente per cui la caduta non comporta un drammatico rotolare sopra la medesima panchina di marmo modello stuntman. Deve, comunque, inventarsi un goffo movimento che gli consenta di non sbatterci un ginocchio. Quindi inarca il corpo all’indietro come a diventare una C umana. L’effetto è ancora più buffo e non passa nemmeno un secondo che i suoi due compagni iniziano a ridere a crepapelle prendendolo in giro. Non passa un istante e il ragazzino già diventa rosso in viso. E’ evidentemente imbarazzato. Le risate non smettono. In particolare, è il capo, quello che immagino, non senza una punta di cattiveria, il classico ripetente, a ridere più forte, a dare il ritmo. Ad un certo punto ho paura si soffochi o cada in preda alle convulsioni. Sbatte la mano destra su una colonna più volte, mi attendo si rotoli a terra e poi il cliché è completo.
Il distratto è ancora più rosso, dal rosso è passato velocemente al viola invocando un po’ di clemenza. “Vabbè  dai...”. Il barbuto non smette e dà di gomito all’altro.
E’ proprio in quel preciso istante che un desiderio quasi insopprimibile esplode in me.


Non lo so se sia l’impulso che tante volte mi fa schierare dalla parte del più debole. Non lo so se sia il fatto che per me, in quel preciso istante, in quel preciso luogo, qualcuno stava davvero esagerando. Non lo so se sia ipersensibilità. O se semplicemente, memore delle mie esperienze adolescenziali, io mi sia immedesimato nella situazione del ragazzino sbeffeggiato.
Fatto sta che, senza dare troppo nell’occhio, faccio roteare lentamente il mio ombrello arancione e lo impugno per il puntale di plastica. Poi, molto lentamente, avvicino il mio improvvisato uncino alla caviglia del ragazzo ancora in preda alla crisi di riso e lo aggancio.
Hop.
Non devo nemmeno tirare: il ragazzo si trova qualcosa tra i piedi e inciampa. Finisce lungo disteso. Braccia e gambe lunghe, sembra Superman. Le mani appoggiano per terra e gli evitano di sbattere il viso. Mi scapperebbe da ridere, ma mantengo un certo contegno.
Lui si alza, rosso in viso, e si volta. Io nel frattempo, ho ritirato l’ombrello e mi sono spostato leggermente di lato. Manca poco che mi metta a fischiettare o a roteare il dito indice.
Dietro di lui non c’è nessuno da incolpare.
Mi guarda e io lo guardo a mia volta per un istante. Cerca un responsabile. Ma non è sicuro sia io. E io, allora,  per togliergli ogni dubbio, sfodero un sorriso accennato, quasi di compassione, di comprensione. 
Poi mi godo la scena del Distratto che ha la sua rivincita.
Ride. Ride. Ride.
E io mi sento più leggero.
La vendetta è compiuta.

CONCLUSIONE
A volte succede di desiderare fortemente di compiere una certa azione e di autocensurarsi perché le conseguenze possono essere pericolose, illegali o anche soltanto socialmente inaccettabili.
Quindi, alla fine, lo ammetto: non l’ho mai fatto.
Al diavolo! Nessuno, però, può vietarmi di scriverlo.

AVREI VOLUTO, MA...


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