Scendo dal treno, intorno all’una
e mezza a Venezia Santa Lucia, stazione ferroviaria che, inopinatamente, una
conoscente (no, giuro, non sto prendendo le distanze, è davvero una
conoscente!), leggendo il cartello Venezia S. L., ha chiamato “Venezia sulla
Laguna” scatenando una certa ilarità.
Smontando dal gradino mi accorgo
che sul treno c’era una mandria di ragazzini. Fortunatamente non li ho
incrociati nella mia carrozza: non avevo davvero voglia di ormoni impazziti
come la maionese, selfie come se piovesse o risate e urla sopra soglia di
tollerabilità. Devo prendere atto che sto irrimediabilmente diventando vecchio!
Li lascio sfilare e mi accodo
agli ultimi del loro assembramento e li mantengo, in maniera sana, a poco meno
di un metro di distanza.
Come spesso mi accade osservo,
guardo, ascolto. Mi sembra di essere un sociologo del trasporto pubblico, in
realtà, molto più banalmente, sono curioso.
In particolare, osservo gli
ultimi tre del gruppo.
Ridono e scherzano ad alta voce.
Ce n’è uno più alto degli altri che sembra essere il leader. Jeans attillati
con l’immancabile risvoltino, niente calzini, giubbotto con cappuccio per
temperature artiche, capelli cortissimi e, cosa che mi stupisce non poco,
apparecchio ai denti. Ha la barba, deve essere cosa recente, ma tanto basta per
renderlo più adulto. Più grande. Più leader.
Gli altri due sono a rimorchio.
Entrambi assomigliano a quei cuccioli che corrono un po’ dinoccolati, magari in
diagonale, con le orecchie che vanno di qua e di là.
Uno dei due, vestito grosso modo
come il capo, sta chiacchierando e sghignazzando: deve essere la sensazione di
libertà e di briglie sciolte che solo una gita scolastica sa dare, anche se si
è ormai al ritorno. Dal treno è scesa molta gente e devo stare attento a dove
metto i piedi: ci sono, infatti, le classiche fermate da turista (visionare la
guida, di già?!) o da lavoratore impaziente (accensione sigaretta appena posato
piede sul marciapiede).
Sento che uno dei tre, guardando
gli altri due, mentre cammina, dice: «Hai visto che figata...». E’ voltato
verso sinistra e muove le mani, descrive, racconta, mi sembra entusiasta. E’ un
attimo. Mentre cammina, parla, ride, pensa, guarda in faccia i suoi
interlocutori. Non si accorge, però, della panchina che giace sul binario da un
discreto numero di anni e ci sbatte contro. Sta camminando lentamente per cui
la caduta non comporta un drammatico rotolare sopra la medesima panchina di
marmo modello stuntman. Deve, comunque, inventarsi un goffo movimento
che gli consenta di non sbatterci un ginocchio. Quindi inarca il corpo
all’indietro come a diventare una C umana. L’effetto è ancora più buffo e non
passa nemmeno un secondo che i suoi due compagni iniziano a ridere a crepapelle
prendendolo in giro. Non passa un istante e il ragazzino già diventa rosso in
viso. E’ evidentemente imbarazzato. Le risate non smettono. In particolare, è
il capo, quello che immagino, non senza una punta di cattiveria, il classico
ripetente, a ridere più forte, a dare il ritmo. Ad un certo punto ho paura si
soffochi o cada in preda alle convulsioni. Sbatte la mano destra su una colonna
più volte, mi attendo si rotoli a terra e poi il cliché è completo.
Il distratto è ancora più rosso, dal
rosso è passato velocemente al viola invocando un po’ di clemenza. “Vabbè dai...”. Il barbuto non smette e dà di gomito
all’altro.
E’ proprio in quel preciso
istante che un desiderio quasi insopprimibile esplode in me.
Non lo so se sia l’impulso che tante volte mi fa schierare dalla parte del più debole. Non lo so se sia il fatto che per me, in quel preciso istante, in quel preciso luogo, qualcuno stava davvero esagerando. Non lo so se sia ipersensibilità. O se semplicemente, memore delle mie esperienze adolescenziali, io mi sia immedesimato nella situazione del ragazzino sbeffeggiato.
Non lo so se sia l’impulso che tante volte mi fa schierare dalla parte del più debole. Non lo so se sia il fatto che per me, in quel preciso istante, in quel preciso luogo, qualcuno stava davvero esagerando. Non lo so se sia ipersensibilità. O se semplicemente, memore delle mie esperienze adolescenziali, io mi sia immedesimato nella situazione del ragazzino sbeffeggiato.
Fatto sta che, senza dare troppo
nell’occhio, faccio roteare lentamente il mio ombrello arancione e lo impugno
per il puntale di plastica. Poi, molto lentamente, avvicino il mio improvvisato
uncino alla caviglia del ragazzo ancora in preda alla crisi di riso e lo
aggancio.
Hop.
Non devo nemmeno tirare: il
ragazzo si trova qualcosa tra i piedi e inciampa. Finisce lungo disteso.
Braccia e gambe lunghe, sembra Superman. Le mani appoggiano per terra e gli
evitano di sbattere il viso. Mi scapperebbe da ridere, ma mantengo un certo
contegno.
Lui si alza, rosso in viso, e si
volta. Io nel frattempo, ho ritirato l’ombrello e mi sono spostato leggermente
di lato. Manca poco che mi metta a fischiettare o a roteare il dito indice.
Dietro di lui non c’è nessuno da
incolpare.
Mi guarda e io lo guardo a mia
volta per un istante. Cerca un responsabile. Ma non è sicuro sia io. E io,
allora, per togliergli ogni dubbio,
sfodero un sorriso accennato, quasi di compassione, di comprensione.
Poi mi godo la scena del
Distratto che ha la sua rivincita.
Ride. Ride. Ride.
E io mi sento più leggero.
La vendetta è compiuta.
CONCLUSIONE
A volte succede di desiderare
fortemente di compiere una certa azione e di autocensurarsi perché le
conseguenze possono essere pericolose, illegali o anche soltanto socialmente inaccettabili.
Quindi, alla fine, lo ammetto:
non l’ho mai fatto.
Al diavolo! Nessuno, però, può vietarmi di scriverlo.
AVREI VOLUTO, MA...
Quante volte....!!
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