Nemmeno 8 mesi fa abbiamo festeggiato l'anniversario della caduta del Muro di Berlino.
Il 9 novembre 2014 ci siamo rimpinzati di retorica raccontandoci della breccia che era stata aperta su una nuova epoca.
Io avevo 12 anni quando è caduto il Muro. Perché semplicemente così lo si chiamava.
Il 9 novembre 2014 ci siamo rimpinzati di retorica raccontandoci della breccia che era stata aperta su una nuova epoca.
Io avevo 12 anni quando è caduto il Muro. Perché semplicemente così lo si chiamava.
Oggi una canzone dei Negrita mi ricorda:
Giorni di velluto e poesie
disastri e Utopie
A Berlino tutto ok
Mentre il Muro andava in briciole!
In «Ich bin ein Berliner» non ho potuto trascurare il Muro. Perché una visita a Berlino ne è comunque impregnata.
Die Mauer. Ci ho scritto una tesi. Ne ho letto. L'ho visto. Ne ho fotografato i resti. Ho passeggiato lungo l'East Side Gallery.
Quando è caduto, pur non comprendendone i risvolti, ho intuito che era accaduto qualcosa di davvero importante
E giorno dopo giorno, mentre sua maestà Il Tempo centellinava le ore, i minuti, i secondi sino a trasformare la cronaca in storia, ho cominciato a capire cosa significasse. Cosa fosse realmente avvenuto.
Era un muro che, soprattutto, impediva alla gente di uscire. Di andarsene a cercare fortuna altrove. In paesi più liberi e più ricchi: «barriera di protezione antifascista» la chiamavano.
Ecco perché il fatto che, in Ungheria, vi sia in costruzione un nuovo muro mi impressiona.
Sarà pronto entro agosto, dicono. In un paese che, colpito da un'amnesia collettiva, ha dimenticato di essere stato accecato, anestetizzato, rinchiuso per lungo tempo dietro una cortina di ferro.
Una barriera di 175 km lungo il confine con la Serbia alta 4 metri per impedire agli stranieri di entrare.
Bizzarro che venticinque anni fa si cercasse di evitare la fuga e oggi si cerchi di evitare l'ingresso.
E poco importa che non sia l'unico esempio.
Non sono un tifoso dell'accoglienza a tutti i costi nell'ottica dell'«avanti che tanto c'è posto» e meno ancora un seguace dei Ruspa(nti) Selvaggi che grattano la pancia al sentimento più becero abitante le viscere dell'italiano medio.
Penso che esista un fenomeno e che vada affrontato, gestito, non cavalcato come un'onda. Anche perché le onde difficilmente si controllano.
Penso che l'immigrazione sia una bottiglia d'acqua che facebook, internet, la televisione hanno rovesciato sulla tovaglia del mondo e che si stia distribuendo dove capita.
Perché non dura a lungo un sistema in cui il 94,5% delle risorse è nelle mani del 20% della popolazione (http://goo.gl/pV3rWW).
Mi correggo.
Non dura a lungo se l'80% della popolazione restante se ne accorge.
Se si accorge che altrove si sta meglio. E «meglio», badate bene, è un concetto relativo.
Meglio per chi ha un paese in guerra significa un paese senza guerra.
Meglio per chi fa fatica a mangiare significa un paese in cui, magari, il tozzo di pane lo si porta a casa.
Meglio per chi è un giovane disoccupato significa, magari, fare il cameriere a Londra o raccogliere le verdure nelle farm australiane.
Meglio per chi ha un'occupazione, ma è bloccato da una totale assenza di meritocrazia, significa, magari, «fuga dei cervelli».
E allora dovremmo ricordarci che qualche volta gli «altri» siamo noi. Magari anche quando ci chiamano «ratti» (http://goo.gl/EnZO).
Quando è caduto, pur non comprendendone i risvolti, ho intuito che era accaduto qualcosa di davvero importante
E giorno dopo giorno, mentre sua maestà Il Tempo centellinava le ore, i minuti, i secondi sino a trasformare la cronaca in storia, ho cominciato a capire cosa significasse. Cosa fosse realmente avvenuto.
Era un muro che, soprattutto, impediva alla gente di uscire. Di andarsene a cercare fortuna altrove. In paesi più liberi e più ricchi: «barriera di protezione antifascista» la chiamavano.
Ecco perché il fatto che, in Ungheria, vi sia in costruzione un nuovo muro mi impressiona.
Sarà pronto entro agosto, dicono. In un paese che, colpito da un'amnesia collettiva, ha dimenticato di essere stato accecato, anestetizzato, rinchiuso per lungo tempo dietro una cortina di ferro.
Una barriera di 175 km lungo il confine con la Serbia alta 4 metri per impedire agli stranieri di entrare.
Bizzarro che venticinque anni fa si cercasse di evitare la fuga e oggi si cerchi di evitare l'ingresso.
E poco importa che non sia l'unico esempio.
Non sono un tifoso dell'accoglienza a tutti i costi nell'ottica dell'«avanti che tanto c'è posto» e meno ancora un seguace dei Ruspa(nti) Selvaggi che grattano la pancia al sentimento più becero abitante le viscere dell'italiano medio.
Penso che esista un fenomeno e che vada affrontato, gestito, non cavalcato come un'onda. Anche perché le onde difficilmente si controllano.
Penso che l'immigrazione sia una bottiglia d'acqua che facebook, internet, la televisione hanno rovesciato sulla tovaglia del mondo e che si stia distribuendo dove capita.
Perché non dura a lungo un sistema in cui il 94,5% delle risorse è nelle mani del 20% della popolazione (http://goo.gl/pV3rWW).
Mi correggo.
Non dura a lungo se l'80% della popolazione restante se ne accorge.
Se si accorge che altrove si sta meglio. E «meglio», badate bene, è un concetto relativo.
Meglio per chi ha un paese in guerra significa un paese senza guerra.
Meglio per chi fa fatica a mangiare significa un paese in cui, magari, il tozzo di pane lo si porta a casa.
Meglio per chi è un giovane disoccupato significa, magari, fare il cameriere a Londra o raccogliere le verdure nelle farm australiane.
Meglio per chi ha un'occupazione, ma è bloccato da una totale assenza di meritocrazia, significa, magari, «fuga dei cervelli».
E allora dovremmo ricordarci che qualche volta gli «altri» siamo noi. Magari anche quando ci chiamano «ratti» (http://goo.gl/EnZO).
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