Ideologia,
teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto
dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente «superiori»,
destinate al comando, e di altre «inferiori», destinate alla sottomissione, e
intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il
genocidio, a conservare la «purezza» e ad assicurare il predominio assoluto
della pretesa razza superiore.
Ok, se questa è la definizione di
razzismo (ed è effettivamente la definizione tratta da un vocabolario) credo
che poche persone possano definirsi effettivamente razziste. E, francamente,
quelle poche non meritano una riga in più da parte del sottoscritto.
Eppure non può essere così semplice.
L’eco degli scontri di Tor Sapienza come di mille altri episodi amplificati,
urlati, sbraitati sugli organi di stampa non è ancora completamente cessato.
E mi viene da chiedermi se ci sia di
più.
E, quindi, se alla domanda “tu sei
razzista?” sia semplice, persino ovvio, rispondere “no, assolutamente”. Perché difficilmente una domanda complessa ha
una risposta semplice ed univoca.
Dubbio rafforzato dalle tante
persone che cominciano bene “non è che
sono razzista” e finiscono male “… ma
…”. Iniziando a quel punto un ragionamento auto assolutorio tanto caro al
genere umano che porta, inevitabilmente, a gravare altri di responsabilità che
potrebbero essere proprie.
Non ho pretese né di produrre
trattati né le capacità per elaborare teorie che possano essere più o meno
valide. Mi limito a tradurre sensazioni, a riportare sulla carta ragionamenti
che, in una piovosa serata di novembre, decido di acchiappare e trascinare sopra
una pagina.
Spesso, per esempio, mi sono trovato
a chiedermi cosa sia quella diffidenza, quell’inquietudine che accompagna le
passeggiate che mi conducono dal retro della stazione della mia città sino al
posto dove ho parcheggiato l’automobile.
Oppure le sensazioni che mi
colpiscono quando mi capita di camminare in mezzo ad un gruppo di persone che
parla una lingua che non conosco. L’incertezza, l’imbarazzo che accompagna i
miei passi quando devo intrufolarmi in un gruppo di persone che chiacchiera sul
marciapiede.
Non sono sensazioni nuove. Ma, devo
ammetterlo, non mi piacciono. Le ho già provata all’estero (ma anche a Palermo
così come davanti ad un’osteria in montagna): quando entri in un locale
pubblico e davanti c’è una sorta di tappo umano. E’ come se fosse un segnale
per dirti “Che ci fai qui?”. O, senza
pretesa di generalizzare, questa è la mia interpretazione di quella situazione. Oppure
è simile alla sensazione che i ragazzini spietati sono soliti impartire
all’ultimo arrivato: il gruppo già composto si volta a guardarlo magari
lasciandosi scappare una battuta.
E poi c’è il buio. Ho sempre avuto
paura del buio da piccolo. Ricordo che a casa di mia nonna, sufficientemente
grande perché potesse capitare di trovarsi da solo in qualche stanza, quando
spegnevo l’ultima luce prima di abbandonare la camera cominciavo a correre
verso il primo ambiente in cui vi fosse qualcuno o vi fosse almeno una luce
accesa.
Ecco allora che il buio, i gruppetti
di persone che parlano un’altra lingua, le notizie urlate enfatizzanti episodi
spiacevoli accaduti in certe zone della città mi portano a stringere con una
forza decisamente superiore a quella necessaria il manico della valigetta
mentre la mia andatura si fa adolescenzialmente arrogante.
Come a dire “Non temo nulla: sono
alto, forte e muscoloso”.
Forse si tratta dell’istinto che ci
ricorda che siamo animali. Animali che fiutano un possibile pericolo e si
spaventano.
In fin dei conti, probabilmente, si
tratta solo di paura. Del diverso, dell'imbarazzo, per sé stessi.
Paura.
Sta a noi accendere il cervello e
non trasformarla in qualcos’altro.
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